L’arte di essere fragili – come Leopardi può salvarti la vita

D’AVENIA ALESSANDRO, L’arte di essere fragili – come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, Milano 2016

Premetto che questo libro ci interessa tutti, in quanto esseri umani vulnerabili nel tempo breve che ci è dato da vivere, in quanto operatori pastorali, in quanto cristiani che con vari ruoli si offrono a lenire la sofferenza dei più deboli, ed è anche utilissimo per quei cristiani, un bel numero, che dicono di comprendere le fragilità ma in ogni atto della loro esistenza, in realtà, si tengono bene alla larga da quel contatto, e si comportano come ipocriti depositari di vicinanza divina, mascherando i loro dubbi e le loro paure dietro un linguaggio formale. Il dolore bisogna attraversarlo per poter balbettare parola sul suo senso e spesso, anzi, non lo troviamo.

Il testo, di Alessandro D’Avenia, insegnante e scrittore, appassionato cultore della vita attraverso l’approfondimento di poeti e letterati con cui nutre i suoi adolescenti alunni in crescita, è anche una rivalutazione di Giacomo Leopardi: studiato nei licei come un romantico pessimista frustrato dalla malattia e dall’isolamento, qui è visto, invece, come un gigante capace di attraversare il dolore e di reagire sempre, accedendo così a vie di contemplazione della natura e di passione letteraria (imparando anche lingue antiche e moderne), fino a condurci alla rinascita autentica, attraverso i sensi, della speranza. Infatti la più alta poesia di Leopardi non si discosta mai dalla esperienza realistica. Egli rifugge l’astrazione e dipinge la verità delle cose (la luna, le stelle, l’orizzonte, l’aia del villaggio, il viandante …), che appaiono ancora più splendenti perché è la poesia di ciò che è semplice e caduco, e pertanto più prezioso.

L’autore, in forma epistolare, tesse con Leopardi un colloquio che attraversa il tempo e plana su categorie di pensiero e sentimenti condivisi che si fanno pane per le generazioni a venire, nutrimento di coraggio e passione per uomini e donne sane, capaci di attraversare meglio le difficoltà della vita e di scoprirne sempre la bellezza. Dice D’Avenia: “C’è un vedere che è credere, perché è sperare, Giacomo, ma sperare richiede di essere disposti a servire la vita che si è intuita nell’altro”. Come farlo? Usando i propri talenti senza pensare che alcuni soggetti ne siano più dotati e altri meno, ma comprendendo che le persone sofferenti che incontriamo sono la personificazione dei nostri stessi “talenti”, in quanto mettono alla prova la nostra capacità di accogliere, di aiutare e, in definitiva, di ESSERE qualcosa di buono sulla Terra.

Il dolore è una delle stanze del nostro cuore da abitare, non si può eludere, è il luogo dove si può imparare di più, si scopre la tenacia della prossimità che non fugge ma tesse legami per il futuro: “Ponendo le domande giuste, vivendole giorno per giorno e condividendole con gli altri uomini, troveremo compagni di viaggio nelle notti più oscure”.

Emerge poi un dato importante: essere consapevoli ‘del bicchiere mezzo vuoto’ nella vulnerabilità, può non ridursi a pessimismo, se quel poco diventa fonte di immaginazione e di creatività. La ferita può diventare slancio verso l’infinito, pur se ci si fa male il contatto con gli spigoli taglienti della finitezza delle cose. Quando facciamo questo ci accorgiamo che è assolutamente possibile chinarci a curare e a riparare le ferite senza stancarci.

Infatti è poesia (= arte del fare) “riparare l’incompiutezza delle cose, prendendone il peso sulle spalle, come si fa con un bambino stanco di camminare ma ormai vicino alla cima”.

D’Avenia, a 39 anni, la stessa età in cui Leopardi ha compiuto la sua vita, è certo di un fatto: “Rimane al centro del mio cuore l’amore grande, quello che nessuno può rovinare, l’amore che cura, l’amore che sostiene, l’amore che tace e che parla, l’amore che fa sanguinare e sognare, l’amore che salva perché è fedele e duraturo”. E ciò vale per l’amore che portiamo agli altri esseri umani e per l’amore che ci lega alla fonte dell’amore che è Dio.

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